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I primi bersaglieri e fanti italiani entrarono a Trieste all’alba del 26 ottobre 1954. Nel giro di poche ore migliaia di persone affollarono le strade della città e la centrale piazza dell’Unità, festeggiando le truppe che sfilavano sotto la pioggia accompagnate dalla fanfara. Nel porto della città, intanto, entravano anche le navi militari con la bandiera italiana. L’ingresso dell’esercito italiano in città sancì il ritorno di Trieste all’Italia, ma fu solo l’ultimo passaggio di una lunga controversia diplomatica cominciata dopo la Seconda guerra mondiale, in cui erano contrapposti non solo gli interessi italiani e della Jugoslavia, ma anche quelli degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, che cominciavano a scontrarsi nella Guerra fredda.
La questione dei territori al confine orientale tra l’Italia e le attuali Slovenia e Croazia era una delle più difficili da risolvere nel 1945, anche perché si legava a scontri iniziati più di vent’anni prima e a un territorio molto complesso per le molteplici identità culturali di chi lo abitava. La regione dell’Alto Adriatico, o il cosiddetto confine orientale, è infatti una zona in cui per secoli si sono sovrapposte culture e lingue diverse (germanica, slava e italiana). Per questo le identità delle persone hanno avuto a lungo un’appartenenza locale più che nazionale.
Dopo aver fatto parte dell’Impero austro-ungarico, con il trattato di pace dopo la Prima guerra mondiale buona parte di questi territori – Trieste, l’Istria e una parte di quella che oggi è la Slovenia – passò sotto il dominio italiano. Nel periodo tra le due guerre il regime fascista avviò un processo di “italianizzazione” delle popolazioni slave locali, sottoponendole a dure repressioni. Questa forzata assimilazione culturale si esacerbò durante la Seconda guerra mondiale, in particolare dal 1941, quando l’esercito tedesco e quello italiano invasero la Jugoslavia. Lì si era nel frattempo strutturata la Resistenza guidata dai comunisti del maresciallo Josip Broz, più conosciuto come Tito, che voleva riconquistare i territori occupati dagli italiani e riunire i popoli slavi in un’unica federazione (la futura Repubblica socialista federale di Jugoslavia, appunto, dissolta nel 1992 e di cui Tito fu capo fino alla sua morte nel 1980). Ci furono quindi anni di violenze tra partigiani jugoslavi e occupanti italiani, con persecuzioni, deportazioni e fucilazioni sommarie continue.
Triestini festeggiano l’arrivo delle truppe italiane a Trieste il 26 ottobre 1954 (Ansa-Farabola)
Alla fine di aprile del 1945, quando la sconfitta della Germania nazista era ormai vicina, partì una specie di corsa per raggiungere Trieste. L’obiettivo delle truppe alleate anglo-americane da una parte e dell’esercito jugoslavo dall’altra era fondamentalmente lo stesso: muoversi il più velocemente possibile per poter avanzare più pretese sui territori al momento delle trattative.
Le truppe di Tito arrivarono a Trieste il primo maggio, anticipando di un giorno i soldati neozelandesi guidati dal generale Bernard Freyberg. Nella “corsa verso Trieste” l’esercito jugoslavo aveva occupato anche parte delle attuali province di Trieste, Udine e Gorizia, avanzando così rispetto al confine tra Italia e Jugoslavia stabilito alla fine della Prima guerra mondiale con il trattato di Rapallo del 1920. A quel punto i soldati delle truppe alleate anglo-americane e quelli di Tito si trovarono negli stessi territori. Gli Stati Uniti provarono a far retrocedere l’esercito jugoslavo minacciando un nuovo conflitto. La situazione rimase però in stallo per 40 giorni.
Il 9 giugno del 1945 Tito accettò di ritirarsi al di là della cosiddetta “linea Morgan”, che fu stabilita con gli accordi di Belgrado per dividere in due zone la Venezia Giulia: si decise che a ovest della linea (zona A) il territorio fosse amministrato dagli americani e a est della linea (zona B) dagli jugoslavi.
A partire dal 1946 iniziò il percorso diplomatico che avrebbe portato al trattato di pace di Parigi firmato l’anno dopo. Agli incontri partecipavano i ministri degli Esteri con i loro staff e i capi di governo delle principali potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, cioè Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica. In quel periodo una commissione istituita appositamente visitò più volte la regione in bilico tra Italia e Jugoslavia, dunque le attuali province di Trieste e Gorizia e l’Istria.
Al termine della visita di questa commissione vennero proposti quattro confini diversi. Si decise di mantenere la linea Morgan e il trattato di pace istituzionalizzò inoltre la proposta di istituire un piccolo Stato indipendente con Trieste come capitale, che venne chiamato Territorio Libero di Trieste (TLT). Nelle intenzioni il TLT avrebbe dovuto essere uno Stato neutrale e demilitarizzato sotto la tutela delle Nazioni Unite, con un suo presidente (governatore), che però non fu mai scelto.
Finché durò, quindi fino al 1954, il TLT non fu mai gestito e amministrato come si era pensato inizialmente.
Anche il TLT era diviso in due zone, molto più piccole rispetto a quelle in cui era stata divisa la Venezia Giulia nel 1945: la zona A andava da Duino, una località poco distante da Monfalcone, a Muggia, il comune più a sud prima della linea Morgan; la zona B andava dalla linea Morgan a Novigrad, una città dell’Istria che in italiano è chiamata Cittanova. Si seguì lo schema della divisione precedente: la zona A del TLT fu lasciata all’amministrazione degli anglo-americani e la zona B a quella degli jugoslavi. Queste due zone continuarono di fatto a esistere fino al 1954.
La mappa del Territorio Libero di Trieste (Wikimedia Commons)
Nel 1948 la cosiddetta “questione triestina” si intrecciò in modo più stretto alla politica italiana, che in quel momento interessava molto sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica.
Da lì in avanti furono proprio le attività diplomatiche internazionali a dettare gli sviluppi, compreso un lungo stallo, che avrebbero portato al ritorno di Trieste all’Italia. Il 1948 fu l’anno delle elezioni politiche in Italia, le prime dalla nascita della Repubblica italiana, vinte dalla Democrazia Cristiana (DC) di Alcide De Gasperi. «Durante la campagna elettorale gli anglo-americani e i francesi dissero di essere favorevoli al ritorno di tutto il TLT all’Italia per aiutare la DC», dice Federico Tenca Montini, ricercatore al Centro di ricerche scientifiche di Capodistria e autore di un libro dedicato alla “questione triestina”. «Quell’estate però la Jugoslavia venne espulsa dal Cominform, l’organizzazione internazionale che riuniva i partiti comunisti di vari Paesi europei sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. Gli Stati Uniti pensarono che potesse essere l’inizio della fine della sfera d’influenza dell’Unione Sovietica e decisero di sostenere la Jugoslavia di Tito, accantonando del tutto Trieste». Da quel momento per qualche anno non ci furono passi in avanti e le trattative, eccetto qualche sporadico tentativo, furono abbandonate.
– Ascolta anche: Che diavolo sono queste “sfere d’influenza”
Ci fu una svolta nel 1953, quando cadde il governo De Gasperi: il nuovo governo, che aveva Giuseppe Pella come presidente del Consiglio, decise di mettere Trieste tra le priorità e mandò truppe dell’esercito italiano al confine. Per reazione anche la Jugoslavia inviò le sue truppe. A quel punto gli americani annunciarono che avrebbero sciolto il TLT e permesso all’Italia di annettere la zona A. Ma, spiega Tenca Montini, fecero un pasticcio: nel comunicato non scrissero chiaramente che la zona B poteva essere considerata parte della Jugoslavia, dandolo per scontato. La Jugoslavia la prese malissimo, a Belgrado vennero danneggiate le ambasciate dei principali paesi occidentali. Si bloccò quindi tutto di nuovo e il guaio comunicativo statunitense provocò una serie di reazioni a catena.
Trieste non venne data all’Italia neanche quella volta e in città aumentarono disordini e scontri diretti con le truppe anglo-americane, che erano rimaste lì dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Gli scontri erano sobillati anche da ambienti nazionalisti, alcuni neofascisti. Bisogna tenere conto che in quegli anni la città aveva subìto molte trasformazioni dovute alla presenza delle truppe alleate: c’erano insegne di negozi in inglese, pub in stile britannico e cinema americani. In più l’industria locale stentava per via della situazione in bilico in cui Trieste si trovava e languiva anche l’attività del porto, che invece fino alla guerra era stato uno dei più importanti dell’Europa centrale. Alcuni avevano quindi sviluppato insofferenza per gli alleati. La stagione degli scontri con l’esercito culminò nella “rivolta di Trieste” dal 3 al 6 novembre novembre 1953: i soldati inglesi uccisero sei persone.
Un incendio durante una manifestazione organizzata per il ritorno di Trieste all’Italia il 6 novembre 1953 (ARCHIVIO/ANSA)
Tutto questo accadeva in un anno in cui ci fu un altro evento cruciale, cioè la morte di Stalin, il dittatore sovietico. Dice Tenca Montini: «Per la Jugoslavia fu una svolta, ma in generale gli anni Cinquanta per la politica internazionale furono un decennio in cui molte cose si stavano ancora definendo e poteva succedere di tutto. La “questione triestina” fu l’evento principale della Guerra fredda in quegli anni, anche se ce lo si ricorda molto meno dei carri armati sovietici a Budapest nel 1956».
Era evidente a quel punto che l’attività diplomatica dovesse essere condotta in modo differente. «I rapporti tra Italia e Jugoslavia erano devastati ma gli Stati Uniti presero in mano la trattativa in modo innovativo, pattuendo una soluzione singolarmente con ciascun paese in modo tale da arrivare a un accordo», racconta Tenca Montini. L’accordo fu ufficializzato nel Regno Unito con il Memorandum di Londra del 5 ottobre del 1954: Trieste sarebbe tornata all’Italia e alla Jugoslavia sarebbe spettata, oltre alla zona B, anche una sottile striscia di territorio della zona A sotto Muggia. In più alla Jugoslavia furono dati molti soldi a fondo perduto affinché potesse costruire un nuovo porto a Capodistria, dal momento che non avrebbe più avuto accesso a quello di Trieste.